I cicli politici cambiano, i protagonisti si avvicendano, le crisi si moltiplicano, ma nella storia delle relazioni tra Italia e Unione europea c’è una costante nel tempo foriera di tensioni e incomprensioni: il Patto di stabilità e crescita. Cioè, il nucleo centrale della disciplina posta a presidio della sostenibilità dei conti pubblici nel quadro delle politiche di coordinamento e vigilanza dei bilanci nazionali.
Una formula che in concreto, nel dibattito politico, si traduce nel rispetto o meno di due parametri percentuali che sono entrati nel tempo nel nostro vocabolario:
Si tratta di soglie significative per Paesi altamente indebitati come l’Italia: basti pensare che, stando alla Nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza (NaDef), che costituisce la base per la manovra di bilancio per il 2024, il disavanzo sale al 5,3% del Pil - anche per effetto della contabilizzazione dei crediti edilizi del Superbonus -, mentre il debito pubblico “vola” al 140,2%, ben oltre il doppio del valore massimo Ue (La Voce). Finora, però, l’Italia non è stata mai sanzionata.
Questo anche perché, con la pandemia da Covid-19, e in ragione del suo imponente impatto sull’economia e sui conti statali, nel marzo 2020 la Commissione europea ha attivato per la prima volta la clausola generale di salvaguardia - introdotta nel 2011 - che “congela”, di fatto, l’applicazione del Patto. La sospensione temporanea è stata poi mantenuta dopo l’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina, ma sarà revocata a partire dal 2024
Un nuovo corso? A partire dal prossimo anno, insomma, sulla scorta dei conti 2023, potranno tornare ad applicarsi le sanzioni del cosiddetto braccio correttivo del Patto di stabilità, su cui ci soffermeremo in seguito. Così ha confermato la Commissione, che ha escluso, a più riprese, una proroga ulteriore della clausola generale di salvaguardia oltre il 2023 (Agi). E questo nonostante pressioni di segno opposto da alcune capitali, vista l’incertezza della congiuntura macroeconomica, in particolare a fronte di un imponente aumento dei tassi d’interesse che pesa sulle casse pubbliche dei Paesi più indebitati, come il nostro.
Il graduale ritorno alla normalità si accompagna con l’entrata nel vivo di un antico esercizio, che stavolta non ha più scuse per essere ritardato, dopo la battuta d’arresto del 2020: la revisione, per la prima volta dalla crisi dell’Eurozona, della governance economica dell’Ue e delle regole sui bilanci statali. Fedele a un mantra: il Patto non riguarda solo la stabilità dei conti, ma pure la crescita economica, attraverso un necessario stimolo agli investimenti.
A fine aprile la Commissione ha presentato una proposta normativa di riforma per conciliare meglio sostenibilità del debito e crescita. Attualmente, è in corso una serrata trattativa tra i governi dei Ventisette per raggiungere un compromesso prima della fine dell’anno. L’obiettivo è concludere l’iter legislativo, che coinvolge pure il Parlamento europeo, entro i primi mesi del 2024 e, quindi, prima della fine dell’attuale legislatura Ue.
Il dibattito, come proviamo a illustrare in seguito, riguarda in particolare - come accade spesso sui dossier più spinosi a livello Ue - l’equilibrio tra “responsabilità e flessibilità”, due parole d’ordine care rispettivamente ai Paesi del Nord e del Sud Europa. Il “derby” è, in questo caso, esemplificato dalla necessità, da una parte, di prevedere target stringenti e obbligatori di taglio del debito in eccesso e, dall’altra, dalle opzioni per il trattamento di favore nei confronti delle spese per investimenti.
I numeri su deficit e debito contenuti nella NaDef che abbiamo accennato prima aiutano a capire perché la riforma del Patto di stabilità e crescita rappresenta se non la madre di tutti i dossier, comunque uno snodo fondamentale nelle trattative tra Roma e Bruxelles. Tanto che, per giocare fino in fondo la sua partita, l’Italia ha provato a dare le carte (e calare l’asso) su più tavoli. Lo ha fatto, in particolare, sfruttando la coincidenza temporale e collegando le concessioni richieste lato disciplina dei conti a una presa d’iniziativa per superare lo stallo sulla ratifica del trattato di riforma del Meccanismo europeo di stabilità (Mes), la cui entrata in vigore è ad oggi impedita solo dal mancato ok del Parlamento italiano, tema a cui abbiamo dedicato un altro approfondimento. Tanto Bruxelles con Commissione e Consiglio, quanto gli altri pesi massimi tra i partner Ue, Germania in testa, non hanno tuttavia mostrato grande entusiasmo per questa la (più o meno esplicita) tattica negoziale (Repubblica).
Ma prima di entrare nel vivo del confronto attuale, cos’è (davvero) il Patto e come si arriva allo sperato punto di svolta di una revisione delle regole Ue sui bilanci pubblici? Proviamo a unire i puntini.
ARCHEOLOGIA DEL PATTO
L’antefatto ci porta al 1993, quando entra in vigore il Trattato di Maastricht firmato un anno prima, testo fondativo dell’Unione europea come la conosciamo oggi, il cui obiettivo era quello di porre le basi per l’unione economica e monetaria. Allora, tra le altre cose, furono definiti i cosiddetti criteri di convergenza che ciascun Paese avrebbe dovuto soddisfare per adottare l’euro, la valuta unica entrata poi in circolazione il 1° gennaio 2002. Tra i criteri rientrano, in particolare, le due “famigerate” soglie d’allarme da non oltrepassare del 3% e del 60%; valori che la Commissione, nel suo ruolo di “guardiana dei Trattati” deve fare rispettare.
Queste due cifre, essendo contenute nei Trattati hanno una valenza di fatto costituzionale a livello Ue e non possono che essere emendate da una revisione dei Trattati, una procedura molto gravosa che richiede l’unanimità degli Stati membri. Nel delineare i contorni della riforma, la Commissione ha infatti messo sempre in chiaro che i due valori di riferimento non saranno toccati; sono, invece, l’architettura della governance economica Ue e il suo funzionamento in concreto a essere profondamente rivisti.
La ragione stessa di una disciplina di bilancio coordinata e di una sorveglianza multilaterale a livello Ue, nella cornice del cosiddetto semestre europeo, è presto detta: se uno Stato membro ignora le regole comuni e persegue una politica di debito pubblico eccessivo, ciò può avere effetti negativi per gli altri Paesi dell’Eurozona. Uno Stato potrebbe, infatti, trovarsi in default, cioè non essere più in grado di contrarre prestiti sui mercati per finanziare la propria spesa pubblica o a doverlo fare a tassi proibitivi, come successo alla Grecia nel 2010 (LifeGate). Gli squilibri macroeconomici rappresenterebbero un rischio per la stabilità finanziaria e bancaria dell'intera zona euro, a causa di una crisi di fiducia legata all’insolvenza di un Paese con possibili reazioni a catena nelle altre economie.
La scelta delle due soglie per i vincoli di bilancio, tuttavia, ha dato vita negli anni a parecchie discussioni: parlando nel 2012 con Le Parisien, l’ex funzionario pubblico francese Guy Abeille ha rivelato che dietro la cifra del 3% nel rapporto deficit/Pil non si celerebbe nessun modello teorico, ma una soluzione politica trovata in fretta e furia nel gabinetto dell’allora inquilino dell’Eliseo François Mitterand, basandosi a tentoni su una media ragionevole della situazione esistente all’epoca. Eventuali scostamenti dalla regola del 3%, è bene ricordare, sono ammessi solo in circostanze eccezionali al di fuori del controllo delle autorità nazionali.
LA DISCIPLINA FINO A OGGI
Le politiche di bilancio restano di competenza degli Stati membri, ma con il Trattato di Maastricht i Paesi Ue hanno avviato un itinerario a tappe per rafforzare l’integrazione anche in questo ambito: il passo successivo è stato, nel 1997, l’adozione del Patto di stabilità e crescita, un accordo internazionale tra i Paesi della (futura) Eurozona per assicurare l’attuazione di politiche di bilancio solide e prudenti da parte degli Stati membri. Si prevedono:
Con il Patto, si puntava poi a dotare l’Ue degli strumenti necessari a inviare avvertimenti e applicare sanzioni agli Stati che non avessero rispettato i vincoli imposti quattro anni prima. Questi strumenti consistono o si delineano così:
L’evoluzione della disciplina del Patto, prima della proposta di revisione odierna, ha conosciuto già vari interventi di riforma: il “Six Pack”, il “Two Pack” e il “Fiscal Compact” dopo la crisi finanziaria del 2011-2012 che aveva visto la Grecia sull’orlo di abbandonare la moneta unica. Fu prevista in quell’occasione la cosiddetta regola del ventesimo, cioè l’obbligo - mai davvero attuato dalla Commissione nella sua funzione di controllo - per gli Stati con un rapporto debito/Pil superiore al 60% di ridurre la quota eccedente tale soglia di un ventesimo all’anno. È l’idea di avere dei tagli uniformi per tutti che, come vedremo in seguito, è sopravvissuta anche nel dibattito attuale. Il “Fiscal Compact” ha introdotto l’obbligo dell’inserimento dell’obiettivo del pareggio di bilancio in disposizioni (preferibilmente) di natura costituzionale, come fatto ad esempio dall’Italia nel 2012.
IL TENTATIVO DI RIFORMA
La Commissione europea aveva annunciato nel febbraio 2020 il lancio di una consultazione pubblica sulla riforma del Patto di stabilità e crescita, alla luce della constatazione che le regole attuali hanno funzionato solo in parte (Il Foglio). L’avvio della raccolta dei contributi sul futuro del Patto è stato rinviato sine die, però, con la concomitante esplosione della pandemia da Covid-19: l’esecutivo Ue ha ripreso in mano la consultazione solo nell’ottobre 2021 (Eunews), e e nel novembre 2022 ha pubblicato una Comunicazione che contiene alcuni orientamenti di massima sulla revisione.
Il 26 aprile 2023, il vicepresidente esecutivo della Commissione Valdis Dombrovskis e il commissario agli Affari economici Paolo Gentiloni hanno infine presentato tre proposte legislative di riforma delle regole di governance economica Ue, tenendo conto, da una parte, della necessità di “sgonfiare” gli elevati livelli di debito pubblico raggiunti durante la pandemia e, dall’altra, della necessità di sostenere la competitività dell’economia europea e la doppia transizione verde e digitale.
I principali punti della riforma riguardano:
LA TRATTATIVA
Nella ricerca di un compromesso “equilibrato” e accettabile per falchi e colombe, alla riunione del Consiglio Economia e Finanza (Ecofin) del 14 luglio scorso, la ministra spagnola Nadia Calviño, presidente di turno dell’organismo che rappresenta i governi, aveva illustrato gli assi prioritari del lavoro di mediazione portato avanti da Madrid. In breve:
I punti 2) e 3), come anticipato, sono quelli su cui il negoziato sta entrando nel vivo per avvicinare le posizioni di Germania e Italia (e rispettivi seguaci) in modo da accelerare sull’approvazione della riforma. Alla riunione dell’Ecofin informale di Santiago di Compostela del 16 settembre, la presidenza spagnola ha annunciato che il consenso è stato già raggiunto su quasi due terzi del nuovo impianto legislativo, mentre continua il lavoro politico sui punti ancora in sospeso (La Stampa). Diradate le nubi di un ennesimo stallo che pure incombevano alla vigilia della riunione, l’Italia ha fornito qualche dettaglio in più sulla misura immaginata per favorire una serie circoscritta di investimenti strategici, cioè in particolare quelli militari per sostenere l’Ucraina e quelli del Pnrr, con una scadenza temporale pensata per dare maggiori garanzie ai governi del Nord Europa: il 2026, anno in cui giungono al capolinea i pagamenti di Next Generation EU.
In vista delle nuove riunioni dell’Ecofin di metà ottobre e inizio novembre chiamate a fare passi avanti individuando una "landing zone", cioè un punto di caduta nella trattativa, Berlino insieme ai suoi alleati insiste per limitare il perimetro dell’eccezione e continua, in parallelo, a tenere il punto sul rientro del debito e ad aggiungere pure “misure di salvaguardia per la tenuta del deficit”, cioè vincoli ulteriori per garantire che il disavanzo dei Paesi Ue rimanga ben al di sotto della soglia massima di allerta del 3% in rapporto al Pil. Per quanto non si parli ancora di valori numerici, sembra ormai pacifico che la sostenibilità dei bilanci al centro del nuovo Patto sarà regolata da uno o più parametri uguali per tutti gli Stati, non demandati al negoziato bilaterale tra la Commissione e ciascuna capitale. È sulla natura e sull'estensione della finestra per mettere in ordine i conti, però, che il negoziato dovrà ancora fare passi avanti.
Insomma, Patto chiaro, amicizia lunga. Forse.
Aggiornato all'8 novembre 2023.