La crisi al confine tra Thailandia e Cambogia ha conosciuto una svolta lunedì 28 luglio con l’annuncio di una tregua immediata, frutto di un vertice ospitato in Malesia. Dopo cinque giorni di combattimenti, il primo ministro cambogiano Hun Manet e il premier thailandese ad interim Phumtham Wechayachai hanno accettato un cessate il fuoco incondizionato a partire dalla mezzanotte successiva. L’accordo, raggiunto alla presenza del primo ministro malese Anwar Ibrahim e sotto la pressione di Washington, prevede colloqui tra i comandi militari dei due Paesi e una riunione congiunta di un comitato di frontiera il prossimo 4 agosto in Cambogia (Ap).
La tregua, tuttavia, si è rivelata fragile. L’esercito thailandese ha accusato Phnom Penh di aver violato l’accordo poche ore dopo la sua entrata in vigore, denunciando nuovi scontri lungo la linea di confine. Secondo Bangkok, alcuni reparti cambogiani avrebbero aperto il fuoco in diverse aree del territorio thailandese, spingendo le forze di difesa a “rispondere in maniera proporzionata” per autodifesa. La Cambogia nega ogni violazione, sostenendo invece che dalla mezzanotte non si sono registrati combattimenti (Al Jazeera).
Dietro l’accordo di tregua si intravede l’ombra del presidente degli Stati Uniti Donald Trump, che nel weekend aveva telefonato ai leader di Bangkok e Phnom Penh per sollecitare la fine delle ostilità, minacciando in caso contrario la sospensione dei negoziati commerciali con entrambi i Paesi. Washington aveva imposto dazi del 36% sulle importazioni da Thailandia e Cambogia, con una possibilità di revisione solo una volta raggiunto l’effettivo cessate il fuoco (Bbc).
E infatti, dopo la firma della tregua, è stato lo stesso Trump ad annunciare la ripresa dei negoziati commerciali, dando istruzioni al suo team di riaprire i tavoli con Bangkok e Phnom Penh. Il premier thailandese ha confermato di aver ricevuto una telefonata di congratulazioni da Trump, nella quale il presidente Usa avrebbe promesso di “fare il massimo” per offrire condizioni tariffarie favorevoli alla Thailandia. Anche la Cambogia ha espresso gratitudine verso l’intervento americano, ringraziando Washington e Pechino, entrambe presenti come osservatori ai colloqui in Malesia (Bloomberg).
La tregua arriva dopo una settimana di scontri intensi lungo i circa 800 km di frontiera contesa tra i due Paesi. Giovedì 24 luglio l’esplosione di una mina antiuomo aveva ferito cinque soldati thailandesi, innescando una serie di attacchi incrociati con artiglieria pesante e raid aerei. Il bilancio, secondo le autorità, è di almeno 38 morti e centinaia di migliaia di sfollati. Le ostilità non si sono placate neppure nelle ore precedenti al vertice di lunedì, con colpi di mortaio e razzi che hanno colpito aree limitrofe a due templi contesi, aggravando il clima di sfiducia. Solo nel pomeriggio, con l’avvio dei colloqui a Putrajaya, la situazione ha iniziato a calmarsi. Le popolazioni di confine, costrette a rifugiarsi in bunker e scuole, hanno accolto l’annuncio del cessate il fuoco con sollievo ma anche con scetticismo, temendo una ripresa dei combattimenti se non verranno implementati meccanismi di verifica chiari (Nyt).
Nonostante la violenta esplosione degli ultimi giorni, la contesa territoriale tra Thailandia e Cambogia ha radici storiche profonde. Alla base del conflitto vi è la definizione dei confini stabiliti durante l’epoca coloniale francese. In particolare, due trattati siglati nel 1904 e nel 1907 tra la Francia e il Siam (l’odierna Thailandia) stabilirono i confini attuali, ma lasciarono numerosi tratti non chiaramente delimitati. Le mappe redatte unilateralmente dai francesi si discostavano in parte dai testi dei trattati, dando origine a controversie mai completamente risolte (The Diplomat).
Uno dei simboli più evidenti di questa disputa è il tempio di Preah Vihear, situato su un altopiano roccioso al confine, e al centro di un lungo contenzioso tra i due Paesi. La Corte internazionale di giustizia lo ha assegnato alla Cambogia nel 1962, ma la Thailandia continua a rivendicare la sovranità su alcune aree circostanti. Ogni tentativo di riconciliazione è stato complicato dal valore simbolico e nazionalista attribuito a questi territori, divenuti strumenti di mobilitazione politica interna. Il periodo 2008-2011 ha visto nuovi scontri proprio in prossimità del tempio, culminati con una nuova pronuncia della Corte a favore della Cambogia nel 2013. La tensione si è poi riaccesa quest’anno, anche per effetto di rivendicazioni parallele sul Golfo di Thailandia (The Conversation).
La gestione della crisi ha accelerato il crollo della fragile coalizione al potere in Thailandia. A inizio luglio, la premier Paetongtarn Shinawatra è stata sospesa dalla Corte costituzionale in seguito alla pubblicazione di una telefonata con l’ex leader cambogiano Hun Sen, in cui si mostrava accondiscendente e criticava un comandante del proprio esercito. L’opposizione l’ha accusata di aver tradito gli interessi nazionali, mentre decine di migliaia di manifestanti sono scesi in piazza chiedendone le dimissioni (Reuters).
Il danno politico è stato immediato: una componente chiave della coalizione ha abbandonato il governo, lasciando il partito Pheu Thai con una maggioranza risicata e paralizzando l’azione esecutiva. Questo episodio ha riacceso il conflitto tra il potere civile e le élite militari e giudiziarie, in una dinamica che da vent’anni contrappone la dinastia Shinawatra al blocco conservatore. Paetongtarn è la quarta esponente della famiglia a guidare l’esecutivo: come i suoi predecessori Thaksin, Yingluck e Somchai, si trova ora a rischio destituzione per via giudiziaria.
Mentre il padre Thaksin affronta nuove accuse per lesa maestà e rischia il ritorno in carcere, il futuro politico della famiglia appare compromesso. L’alleanza di governo, frutto di un accordo di convenienza con gli ex avversari conservatori per tenere fuori il partito riformista Move Forward, si sta sgretolando sotto la pressione delle piazze e delle istituzioni. Per molti osservatori, si apre ora una fase di incertezza che potrebbe rimettere in discussione gli equilibri politici del Paese (Guardian).