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Stili dominanti: cosa ci racconta l’architettura del potere di oggi?

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di: redazione
9/6/2025
Stili dominanti: cosa ci racconta l’architettura del potere di oggi?Stili dominanti: cosa ci racconta l’architettura del potere di oggi?

L’architettura, come la memoria, non è mai neutrale. Dagli Stati Uniti all’India, passando per l’Ungheria, sempre più governi nazionalisti la usano come un’estensione visiva del proprio potere, riscrivendo il passato attraverso restauri selettivi o demolizioni strategiche, e plasmando lo spazio pubblico per veicolare una memoria nazionale semplificata, spesso costruita per escludere (Le Monde).

Nel giorno stesso del suo ritorno alla Casa Bianca, Donald Trump ha firmato un ordine esecutivo che rilancia il neoclassicismo come stile ufficiale per gli edifici federali americani. L’obiettivo dichiarato è quello di “abbellire gli spazi civici” e “nobilitare il sistema di governo americano” (Elle). La misura, affidata alla General Services Administration – l’ente che gestisce il patrimonio immobiliare dello Stato – riprende una proposta simile avanzata nel 2020 e poi in seguito revocata dal successore Joe Biden.

Ma l’intervento va oltre l’architettura. Come spiega The National, questo ritorno all’estetica classica è parte di una battaglia culturale più ampia, in cui il gusto per le colonne e i frontoni si intreccia con l’idea di ordine, tradizione e identità nazionale

Non è un caso che negli Stati Uniti, già dalla metà degli anni 2010, alcune voci della destra, ad esempio su Fox News, abbiano trascinato l’architettura nel dibattito culturale, usando termini come “postmoderno” in modo vago e polemico per colpire tutto ciò che suonava come espressione di un mondo progressista o accademico, dall’urbanistica alla teoria di genere. E poco importava, prosegue The National, che il postmodernismo fosse anche un vero movimento architettonico, in alcuni casi persino allineato con posizioni ultra-tradizionaliste: nella narrazione mediatica diventava sinonimo di decadenza, elitismo, bruttezza.

Cos’è il “Giardino degli Eroi Americani”?

Il ritorno del neoclassicismo di Stato si accompagna a un altro progetto simbolico: il “Giardino degli Eroi Americani”. Si tratta di un grande parco, promosso dall’amministrazione Trump, in cui dovrebbero sorgere 250 statue di “grandi americani” scelti dall’alto (The Conversation). L’intento è celebrare, con una visione piuttosto semplificata della storia nazionale, figure riconoscibili e popolari – da Abraham Lincoln a Kobe Bryant – contrapponendole a una narrazione storica “revisionista”, accusata di dipingere gli Stati Uniti come una nazione irrimediabilmente segnata da razzismo e oppressione.

Secondo diversi storici, però, l’iniziativa finisce per rafforzare una lettura della storia centrata sui grandi uomini e sulle imprese eccezionali, a scapito delle esperienze collettive e delle comunità locali. Il giardino, peraltro, dovrebbe essere finanziato anche con fondi sottratti a progetti di archiviazione, musealizzazione e memoria diffusa, tra cui documentari, mostre itineranti e raccolte di testimonianze orali.

Chi decide cosa vale la pena ricordare?

Dietro queste operazioni non c’è solo un’idea estetica, ma una precisa visione del mondo. Costruire secondo un canone, come quello neoclassico, significa anche suggerire che esista un’unica forma legittima di bellezza, armonia, ordine. E in un contesto polarizzato, questa forma viene associata a una cultura “vera”, “autentica”, in contrapposizione a tutto ciò che è percepito come nuovo, minoritario o dissidente.

Come osserva ancora The Conversation, è un approccio che finisce per rafforzare l’idea secondo cui solo i personaggi eccezionali meritino uno spazio nella narrazione collettiva. E nella misura in cui l’architettura pubblica viene plasmata su questa idea, si traduce in ambienti che celebrano il potere e l’uniformità, piuttosto che la pluralità e il dissenso.

E in Europa?

Negli ultimi anni, anche Budapest è diventata un laboratorio di questa simbiosi tra architettura e potere. Il primo ministro ungherese Viktor Orbán ha promosso un vasto programma di restauro, centrato sulla riqualificazione neoclassica degli edifici pubblici: dal Parlamento alla collina del Castello, fino al ritorno in auge di monumenti dell’epoca di Miklós Horthy, alleato di Adolf Hitler e reggente ungherese dal 1920 al 1944 (UnHerd). L’obiettivo, secondo Le Monde, non è solo estetico: si tratta di ridisegnare lo spazio urbano per esprimere un’identità nazionale forte, cristiana e storicamente vittimizzata.

Il progetto cancella le tracce del comunismo e reintegra simboli della monarchia e dell’autoritarismo interbellico. Pur evitando di glorificare apertamente la figura, Orbán ha favorito il ritorno di una narrazione epica e selettiva della storia del Paese, funzionale al suo disegno politico.

Architettura e propaganda: l’estetica dell’esclusione

La storia mostra che l’architettura è sempre stata una forma di linguaggio politico. Ma oggi, come racconta UnHerd, la riscoperta degli stili storici da parte dei governi populisti non è solo nostalgia. È un modo per dare forma a un’idea precisa di nazione, ordinata e omogenea. Le guglie gotiche, i portici classici e i restauri monumentali non servono solo ad attirare turisti: diventano dispositivi ideologici.

Questo processo non è limitato all’Europa dell’Est. Anche nel Regno Unito e negli Stati Uniti, alcuni think tank conservatori propongono di incentivare stili “tradizionali” per rendere lo spazio urbano più “normale” e rassicurante. Ma la normalità proposta è tutt’altro che neutrale: è un’estetica dell’esclusione, che marginalizza chi non rientra in quell’immaginario.

La nuova India di Narendra Modi

In India, l’uso politico dell’architettura è ancora più evidente. Il governo di Narendra Modi ha avviato un’ampia trasformazione del centro di Nuova Delhi, demolendo edifici coloniali per far posto a un nuovo Parlamento e a una serie di strutture che esprimono il carattere “spirituale” dell’India induista (Bloomberg). Il nuovo edificio, progettato in stile triangolare con riferimenti simbolici alla tradizione induista, è stato inaugurato con un rituale religioso officiato da sacerdoti shivaiti.

Parallelamente, sono aumentati gli episodi di demolizione di moschee e scuole islamiche, formalmente per motivi urbanistici, ma in contesti che lasciano pochi dubbi sulla matrice ideologica (Cnn). Recentemente, diverse moschee sono state rase al suolo con la motivazione dell’abusivismo, scatenando proteste e tensioni religiose, mentre il controverso tempio Ram Mandir, costruito sulle rovine di una moschea distrutta negli anni ’90, è stato celebrato come simbolo della “nuova India”.

L’architettura può ancora essere uno spazio di pluralismo?

Come nota Le Monde, il tratto comune tra i progetti architettonici promossi da leader nazionalisti è l’uso sistematico della bellezza classica o della monumentalità per legittimare una visione del mondo conservatrice e, spesso, escludente. In questo senso, l’architettura pubblica non serve più solo a rappresentare uno Stato, ma diventa strumento attivo di propaganda.

In un mondo in cui i governi di destra sempre più spesso la usano per rafforzare visioni identitarie, bisogna allora chiedersi se c’è ancora spazio per un’architettura pluralista. Esiste una forma architettonica capace di rappresentare la diversità, il conflitto, la complessità di una società democratica?

Come nota UnHerd, se l’architettura monumentale è sempre espressione di un potere univoco, la risposta liberale rischia di ridursi alla sua negazione. Ma negare questi simboli identitari non basta. Occorre immaginare spazi che possano essere davvero condivisi, che accolgano più storie invece di celebrarne solo una.

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