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Nuovo equilibrio mediorientale

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di: redazione
28/12/2019
Nuovo equilibrio mediorientaleNuovo equilibrio mediorientale

Pubblichiamo uno dei testi del nostro libro “L’anno che verrà – 2020” scritto da Giordano Stabile

Il ritiro americano dal Nord-Est della Siria segna la fine di otto anni di guerra civile e apre una fase nuova nel Levante arabo, lo spazio che include Libano, Siria, Giordania, Iraq, e che è stato attraversato negli ultimi due decenni da ondate di caos devastanti. Anche se Donald Trump ha in parte corretto la decisione strategica e lascerà 800 soldati a guardia dei pozzi petroliferi, il disimpegno dal fronte siriano è una tappa decisiva nella nuova strategia della Casa Bianca. Si passa dall’intervento militare alla volontà di influenzare la regione con l’arma economica.

È un cambio di linea che riguarda tutto il Medio Oriente. Lo dimostra il rifiuto del leader statunitense di condurre una rappresaglia sull’Iran dopo l’abbattimento di un drone Usa sullo Stretto di Hormuz. Ma non è una manifestazione di debolezza. Le pressioni economiche, sanzioni a Teheran ed Hezbollah, hanno già avuto un impatto su uno scacchiere conteso fra Stati Uniti, Russia, Turchia e Iran. Le rivolte in Iraq e Libano offrono adesso a Washington la possibilità di limitare l’influenza degli ayatollah e recuperare posizioni, anche a vantaggio di Israele. I quattro Paesi della regione sono interconnessi e hanno una loro unicità: dialetti molto simili per il sostrato comune aramaico e frammentazione settaria, con decine di confessioni cristiane e musulmane.

Le ondate di caos si propagano con rapidità, come si è visto con l’ascesa dell’Isis. Il califfato aveva l’ambizione di cancellare i confini “coloniali” imposti da Sykes-Picot, ma anche il fronte sciita ha un progetto simile. Nell’ultimo discorso di Hassan Nasrallah prima delle proteste si vedeva alle sue spalle una cartina dove le frontiere erano sparite: “il ponte terrestre” dall’Iraq al Mediterraneo, sognato dai Pasdaran. Ora però Hezbollah è destinato a cedere parte delle posizioni di forza conquistate in Libano. È vero che la “saura”, la rivoluzione del 17 ottobre, investe tutta la classe politica, ma il Partito di Dio è parte del “sistema”. Un sistema che scricchiola. L’economia libanese si basava su flussi finanziari da paradiso fiscale e sulle rimesse degli immigrati nel Golfo. Ciò permetteva un cambio fisso tra lira e dollaro, quota 1500, e stabilità. La classe politica ne ha approfittato per arricchirsi a man bassa e portare il deficit all’11% del Pil e il debito al 150. La fine della pacchia finanziaria ha costretto il governo di Saad Hariri a una manovra lacrime e sangue, che a sua volta ha innescato la rivolta. Ora è chiamato a guidare un governo tecnico, senza partiti, e quindi senza Hezbollah: il vero obiettivo di Washington.

Nelle stesse settimane che hanno visto scendere in piazza un milione di libanesi, un quinto della popolazione, altri milioni riempivano le piazza di Baghdad. È una rivolta di masse sciite contro élite anch’esse sciite che hanno preso il potere dopo l’invasione americana del 2003. La distruzione del regime di Saddam Hussein aveva portato a un paradosso: aprire le porte della Mesopotamia all’Iran. I partiti sciiti hanno però sprecato l’occasione, e la stretta Usa sui Pasdaran li ha indeboliti. La guerra all’Isis ha prosciugato le risorse statali, il resto è stato sprecato nella corruzione (22esimo Stato più corrotto al mondo), larghe fette del Paese restano senza acqua potabile ed elettricità, la disoccupazione è al 16%.

La gioventù irachena, con paghe da fame e nessun servizio, chiede riforme, rivendica dignità. Dalla primavera araba siamo passati a un autunno caldo. E dopo l’intervento anti-proteste di Khamenei la rabbia si è diretta contro le interferenze iraniane, con l’assalto al consolato di Karbala, mentre è probabile che anche la Siria di Bashar al-Assad, una volta riconquistata la provincia ribelle di Idlib, dovrà affrontare la stessa sfida.

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