La musica generata dall’AI non è più un fenomeno marginale, ma una realtà che sta trasformando profondamente l’industria discografica. Secondo una recente ricerca realizzata da Deezer, ogni giorno vengono caricati sulla piattaforma circa 30 mila brani realizzati interamente o parzialmente con AI generativa. Si tratta del 28% del totale delle tracce pubblicate quotidianamente. Il dato colpisce soprattutto per la rapidità con cui è aumentato: a gennaio la percentuale era del 10%, a giugno del 18%, mentre a febbraio si contavano “solo” 10 mila brani di questo tipo. In meno di un anno, la quota è quasi triplicata, segnalando un fenomeno ormai strutturale nello streaming musicale (Rolling Stone).
Ma come ogni trasformazione gli effetti possono essere molto profondi, a partire da quelli sull’economia del settore. Lo ha evidenziato un rapporto della Confederazione internazionale delle società di autori e compositori (Cisac), secondo cui entro il 2028 i musicisti rischiano di perdere fino al 24% dei loro ricavi a causa della diffusione della musica artificiale. Tradotto in cifre, parliamo di circa 10 miliardi di euro complessivi sottratti agli autori.
Allo stesso tempo, il mercato dell’AI generativa applicata alla musica crescerà dagli attuali 3 miliardi a 64 miliardi in cinque anni (Guardian). Questo spostamento di valore ridisegnerà i modelli di business delle piattaforme di streaming e delle music library: secondo lo stesso studio, entro il 2028 un quinto dei ricavi delle piattaforme tradizionali e il 60% di quelli delle librerie musicali deriveranno da contenuti generati da algoritmi.
A rendere il tema ancora più attuale è la presenza di tracce realizzate dall’AI con una qualità talmente elevata da risultare indistinguibili dalle altre. Il caso dei Velvet Sundown è emblematico: la band, con oltre un milione di ascoltatori mensili su Spotify, si è rivelata un progetto interamente artificiale, una provocazione artistica volta a esplorare i confini dell’autorialità (Cnbc).
Per alcuni l’esperimento mostra il potenziale creativo dell’AI generativa, capace di costruire strutture musicali complesse; per altri mette in luce i limiti di un prodotto privo di “anima”. The Atlantic ha analizzato il fenomeno ponendosi una domanda filosofica di fondo: può un algoritmo che imita stili preesistenti essere considerato un autore?
In Giappone, la popolare girl band AKB48 ha celebrato il ventennale con una sfida tra il fondatore Yasushi Akimoto e la sua versione artificiale “AI Akimoto”. A sorpresa, il brano scritto dall’AI, Omoide Scroll, ha superato quello umano di oltre 3mila voti. Un episodio che evidenzia come il pubblico stesso possa preferire la musica artificiale senza rendersene conto (Bbc).
Anche nel nostro Paese il trend legato alla diffusione di musica generata dall’AI ha già acceso dibattiti. Giuliana Florio, sociologa e musicista conosciuta come Grose, è salita alla ribalta con brani pop pubblicati su TikTok e Spotify. Alcuni ascoltatori hanno notato una voce troppo “perfetta”: solo in un secondo momento è stato spiegato che le registrazioni erano state elaborate con AI generativa. La vicenda ha aperto un confronto sull’autenticità e sui confini della musica artificiale (Domani).
Un altro esempio è quello di Iam, la prima cantante italiana interamente creata dall’intelligenza artificiale. Nata dall’idea del regista Claudio Zagarini e da un collettivo di creativi, ha debuttato con il singolo “Pazzesco”. Iam si presenta come un’artista senza etichette di genere o provenienza e il suo brano è regolarmente depositato alla Siae, a dimostrazione che dietro la musica generata dall’AI c’è comunque un’opera umana da tutelare (RDS).
La crescita della musica artificiale ha spinto l’industria e i governi a discutere delle tutele da garantire all’interno del settore. L’Ifpi, la federazione internazionale dei discografici, ha chiesto di proteggere gli artisti dal rischio che i loro cataloghi vengano utilizzati senza consenso per addestrare modelli di AI. Ma più in generale l’organizzazione ha sollevato il tema di come rendere l’AI un sostegno, e non una minaccia, per l’intera industria della musica (The Hollywood Reporter).
In Gran Bretagna, oltre 70 musicisti, tra cui Paul McCartney, Elton John e Mick Jagger, hanno firmato una lettera al governo per chiedere nuove norme sul copyright, denunciando l’uso non autorizzato delle loro opere da parte delle aziende tech. La questione è ormai anche di diritti fondamentali: secondo gli artisti, consentire l’uso indiscriminato dei cataloghi equivale a una forma di “furto di vita” (Guardian).
Come scrive ancora la testata britannica, intanto a livello internazionale emergono anche esperienze pionieristiche. Australia e Nuova Zelanda, per esempio, hanno avviato percorsi legislativi che rafforzano la protezione dei creativi e introducono misure specifiche per preservare le culture indigene nell’era dell’AI generativa.
Accanto alle preoccupazioni, cresce però anche l’interesse per le opportunità offerte dalla musica generata dall’AI. Al festival SXSW Londra, artisti come Holly Herndon e Mat Dryhurst hanno mostrato protocolli per un addestramento etico delle macchine, mentre la cantante britannica Imogen Heap ha presentato Auracles.io, un sistema di identità digitale per garantire trasparenza e compensi agli autori. Anche Björn Ulvaeus degli ABBA e il produttore Timbaland vedono nell’AI un supporto in grado di accelerare la produzione musicale senza sostituire del tutto l’artista umano (MixMag).
Ma i rischi restano significativi. Come sottolinea Vox, i modelli di AI generativa tendono a standardizzare i suoni e a riprodurre bias culturali, rischiando di ridurre la diversità creativa. Inoltre, potrebbero sottrarre reddito a chi lavora nei segmenti meno visibili della filiera musicale, dagli autori di jingle agli arrangiatori di colonne sonore. La sfida, dunque, è garantire che la musica artificiale diventi uno strumento al servizio della creatività, e non un fattore di impoverimento culturale.