C’era una volta il Tamagotchi, il gioco elettronico portatile giapponese bramato da tutti i Millennials. Oggetto del desiderio e status symbol, è diventato un fenomeno di massa a cavallo tra gli Anni Novanta e Duemila. Oggi il nuovo “must have” per i giovani adulti della Generazione Z è il Labubu. Un piccolo mostro peloso, con denti aguzzi e un sorriso furbo, ideato nel 2015 dall'artista di Hong Kong Kasing Lung e prodotto dal 2019 dall'azienda cinese Pop Mart. Nato come personaggio da libro illustrato, si è trasformato in un fenomeno globale grazie al formato “blind box” e alla diffusione sui social.
Il successo dei Labubu è frutto di un mix calibrato tra nostalgia, collezionismo, estetica "ugly-cute" (dall'aspetto buffo e sgraziato, ma che risulta in realtà carino) e dinamiche di mercato che ricalcano quelle del gioco d'azzardo. L’acquisto non è più un atto razionale, ma un rituale emozionale che punta sul desiderio, la sorpresa e la condivisione. Il risultato: file interminabili davanti ai negozi, restock esauriti in pochi secondi e un mercato parallelo dove i pezzi più rari possono superare i 4000 dollari (Fortune).
Il fenomeno dei pupazzetti Labubu, disponibili in versione charms, XXL o da collezione, è esploso sui social network Instagram e TikTok. Il boom internazionale è partito dalla Corea del Sud nel 2023, quando la star del K-Pop Lisa delle "Black Pink" ha mostrato alcuni dei pupazzi della sua collezione su Instagram. Da lì il salto verso le fashion week, le borse di Rihanna, gli scaffali della Rinascente e i pop-up store a New York o Londra. La loro estetica a metà tra il kawaii giapponese e il grottesco occidentale li rende trasversali, capaci di parlare a culture diverse.
Molti lo usano come charm da borsa, in particolare per i brand di lusso: un accessorio ironico e affettuoso che trasforma un oggetto infantile in un codice culturale da adulti. Il passaggio è simile a quello dei Beanie Babies (una linea di animali di peluche imbottiti con palline di plastica al posto della tradizionale imbottitura morbida) negli anni Novanta, ma amplificato dai social. TikTok, Reddit, Instagram e WeChat sono pieni di video di unboxing, ranking delle preferenze, scambi tra collezionisti e tutorial per distinguere i veri Labubu dai "Lafufu", le versioni false (Vanity Fair Italia).
Il target non sono bambini, ma adulti giovani, soprattutto Gen Z e Millennial, con una forte componente femminile e urbana. Acquirenti che cercano oggetti che parlino di loro, li facciano sentire parte di un gruppo e siano riconoscibili online. I pupazzetti, infatti, rispondono al bisogno atavico di ritrovare significati condivisi: esporre il proprio Labubu sulla borsa è come fare parte di un club.
Intorno ai Labubu sono nate delle vere e proprie comunità sui social. Personalizzare il proprio, vestirlo, truccarlo, portarlo in viaggio, fotografarlo, significa dargli (e darsi) un'identità. La collezione diventa narrazione e appartenenza (Siamomine).
Oltre al trend sui social media, il segreto del successo dei Labubu è dovuto in buona parte al formato delle “blind box”: scatole misteriose che contengono una versione a sorpresa del pupazzo, scelte in base a probabilità predefinite. La variante più rara ha una possibilità su 72 di essere trovata. I meccanismi applicati del marketing e della psicologia degli acquisti, l’effetto sorpresa e il senso di esclusività che si è creato attorno a questi oggetti spingono i fan a volerli collezionare tutti (Geopop).
Anche i negozi Pop Mart fisici sono presi d'assalto in tutto il mondo. A Milano, centinaia di persone si sono messe in coda dalla notte per l’apertura del pop-up store alla Rinascente. Scene simili si sono viste a Londra, New York, Seul. L’attesa è diventata parte dell’esperienza: un rito collettivo, fatto di sveglie all’alba, check-in via app, controlli d’identità e meccanismi a estrazione. Le file non servono solo a comprare, ma a sentirsi parte di un momento (Milano Today).
Tuttavia, come ogni fenomeno virale, anche i Labubu sono soggetti all'effetto boomerang. Già si moltiplicano le copie, il mercato del “reselling” si sta saturando e le risse nei negozi hanno costretto Pop Mart a sospendere temporaneamente le vendite in alcune città. Ma l'azienda punta alla continuità: nuovi artisti, nuove collezioni, nuove collaborazioni.
La strategia di Pop Mart si basa su pochi concetti chiave: edizioni limitate, design d’autore, storytelling e community. Ogni linea è firmata da un artista, e l'azienda investe in negozi fisici curati come showroom d’arte, vending machine automatizzate, app con accessi esclusivi e sistemi a estrazione per contenere le resse.
Il tutto accompagnato da un prezzo accessibile (20-30 euro) che stimola l'acquisto seriale, pur lasciando spazio a collezioni premium e partnership con marchi globali, come Coca-Cola e Vans. L'effetto è un brand aspirazionale, ma non elitario, capace di parlare alla pancia emotiva dei consumatori (Time).
Il creatore di Labubu è Kasing Lung, artista nato a Hong Kong e cresciuto nei Paesi Bassi. Conosciuto per il suo stile illustrativo ispirato alla mitologia nordica, Lung ha dato vita nel 2015 alla serie "The Monsters", da cui è nato anche Labubu. La collaborazione con Pop Mart, avviata nel 2019, ha trasformato queste figure da disegni su carta a oggetti da collezione globali.
La viralità delle Labubu ha portato a un boom per l'azienda, fondata nel 2010 dall'imprenditore Wang Ning. L’anno scorso le azioni di Pop Mart sono aumentate di quasi il 370%: oggi conta più di 530 negozi in tutto il mondo, di cui oltre 130 fuori dalla Cina. Nel 2024 Pop Mart ha registrato ricavi globali per 1,8 miliardi di dollari, di cui 423 milioni provenienti solo dai Labubu (Cnbc).
E grazie alla Labubu-mania, il fondatore e ceo di Pop Mart, Wang Ning, è entrato per la prima volta nella top ten dei miliardari cinesi. Con un patrimonio netto di 22,7 miliardi di dollari basato sulla sua quota in Pop Mart, il 38enne è ora il decimo uomo più ricco della Cina e il più giovane tra i maggiori magnati del Paese (Forbes Italia).
Pop Mart è il simbolo di una trasformazione più ampia del consumo cinese. I brand locali non sono più solo produttori per conto terzi, ma creatori di immaginari. Come nel caso del tè Chagee, dei gioielli Laopu o dei cosmetici Mao Geping, l’appeal non è legato al prezzo basso, ma alla capacità di comunicare un’identità culturale forte. I Labubu mostrano che il made in China può essere anche cool, collezionabile e desiderabile (Economy Magazine).
Inoltre, la narrazione non è quella della tradizione cinese, ma di un mondo fantasy autonomo e aperto, popolato da creature vulnerabili, stralunate, spesso malinconiche. Un mondo che offre un rifugio emotivo e una forma di evasione condivisa, che si sposa con il bisogno contemporaneo di "piccole felicità" accessibili.
Per anni la Cina ha provato a costruire soft power con strumenti statali: gli istituti di cultura intitolati a Confucio, produzioni cinematografiche, campagne promozionali. Ma il caso Labubu racconta un modello diverso: spontaneo, commerciale, fondato su diritti di proprietà intellettuale forti e logiche bottom-up. Un successo senza regia, ma con risultati potenti: Pop Mart sta cambiando la percezione del "made in China", trasformandolo da sinonimo di imitazione, produzione di massa e scarsa qualità a icona di creatività.
Labubu è il segnale che il consumatore globale è pronto ad accogliere anche brand cinesi se questi riescono a emozionare, intrattenere e costruire una comunità. Come accaduto con l’ “Hallyu” sudcoreana o il “Cool Japan”, la Cina potrebbe aver trovato nella cultura pop un canale più efficace della diplomazia. E tutto grazie a un piccolo pupazzo con i denti storti (The Conversation).