Con un discorso del presidente Emmanuel Macron in occasione del summit di alto livello sulla questione palestinese e la soluzione dei “due popoli, due Stati”, che si è tenuto lunedì 22 settembre 2025 alla vigilia dell’apertura dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite a New York, la Francia ha ufficialmente riconosciuto lo Stato di Palestina. A ruota, è stata seguita da Andorra, Belgio, Lussemburgo, Malta, Monaco e San Marino.
Il giorno prima, Regno Unito, Canada, Australia e Portogallo avevano formalizzato il loro riconoscimento. In poche ore, sono passati così da zero a tre i Paesi membri del G7 a riconoscere la Palestina. Spagna, Irlanda, Norvegia e Slovenia, invece, avevano comunicato il loro riconoscimento un anno fa. Si tratta della più significativa ondata di riconoscimenti per lo Stato di Palestina da oltre un decennio.
La Palestina è riconosciuta ufficialmente da 151 Stati membri delle Nazioni Unite su 193 (Cnn): tra le assenze di peso, ci sono ancora Stati Uniti, Germania e Italia. Lo Stato di Palestina - che comprende Cisgiordania, Striscia di Gaza e Gerusalemme Est - è stato proclamato nel novembre 1988 dall’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp), durante una sessione solenne del Consiglio nazionale palestinese ad Algeri. Letta da Yasser Arafat, la “Dichiarazione di indipendenza palestinese” era stata scritta dal poeta Mahmoud Darwish. Dopo la proclamazione, arrivò il riconoscimento dalla gran parte di Paesi non-occidentali o che avevano recentemente ottenuto l’indipendenza. Oggi, ad esempio, su 54 Stati in Africa, 52 riconoscono la Palestina (il manifesto).
Nel diritto internazionale, spiega Treccani, il riconoscimento è un atto unilaterale, con cui si prende atto di una data situazione di fatto o di diritto. In questo caso, dell’esistenza di un altro Paese.
Il riconoscimento di uno Stato, tuttavia, non serve a costituire la personalità giuridica della nuova entità. Devono, infatti, esistere certi fattori oggettivi. La Convenzione di Montevideo del 1933 elenca quattro criteri minimi da rispettare, che non sono vincolanti ma vengono spesso usati come riferimento: per essere considerato tale, lo Stato deve avere una popolazione permanente, un territorio definito, un governo e la capacità di intrattenere relazioni con gli altri Stati (Il Post). La Palestina ha una popolazione permanente e un territorio definito, anche se da decenni occupato da Israele, puntualizza il Corriere.
Il riconoscimento non implica automaticamente l’apertura di ambasciate, ma rende questa possibilità concreta. Allo stesso tempo, due entità possono avere relazioni diplomatiche anche senza riconoscimento formale, come accade tra la maggior parte dei Paesi europei e Taiwan.
Nel diritto internazionale, ricorda Le Monde, non esiste un’autorità centrale che detenga il potere di riconoscere l’esistenza di uno Stato. Ogni “soggetto di diritto internazionale”, cioè gli Stati e le organizzazioni internazionali come le Nazioni Unite, ha la facoltà di decidere se ammettere o meno l’esistenza di un altro Stato. La valutazione espressa mediante il riconoscimento non ha alcuna conseguenza giuridica rispetto agli Stati che non effettuano il riconoscimento.
Nel caso di Israele, ad esempio, l’Assemblea generale dell’Onu aveva approvato nel 1947 una risoluzione che prevedeva la creazione di uno Stato ebraico. Eppure, diversi Stati membri dell’Onu, come l’Algeria, non riconoscono ancora oggi Israele, che è membro del Palazzo di Vetro dal 1949.
A proposito di Onu, la Palestina ha il ruolo di “osservatore permanente” dal 2012: una posizione che le consente di sedere all’Assemblea generale, ma senza diritto di voto. La piena adesione alle Nazioni Unite, tuttavia, ricorda ancora il Corriere, richiede l’approvazione del Consiglio di sicurezza, dove ci si scontra con il veto opposto dagli Stati Uniti.
Lo Stato di Palestina è stato proclamato nel 1988, dicevamo. Fin dal suo atto fondativo, questo Stato ha dichiarato di “credere nella risoluzione pacifica dei conflitti regionali e internazionali” e di “condannare la violenza e il terrorismo”. Il testo della proclamazione fa riferimento al piano di partizione approvato dall’Onu nel novembre 1947, che prevedeva la creazione di uno Stato ebraico (sul 55% del territorio) e di uno Stato arabo (sul 45%). Secondo la dichiarazione palestinese, quel piano conferirebbe una “legittimità internazionale” al “diritto del popolo palestinese alla sovranità e all’indipendenza”.
Nel 1993, il leader dell’Olp Arafat e il primo ministro israeliano Yitzhak Rabin firmano a Washington la Dichiarazione di principi sugli accordi di autogoverno provvisorio, dopo negoziati segreti in Norvegia. Fu il primo di una serie di intese note come Accordi di Oslo (France24), che gettano le basi per la fine del conflitto israelo-palestinese e per costruire un quadro di autonomia palestinese entro i confini precedenti al 1967. I confini, cioè, pre-Guerra dei Sei Giorni, al termine della quale Israele realizzò un’occupazione militare permanente che dura ancora oggi.
Gli Stati che non riconoscevano ancora la Palestina, pur dichiarandosi a favore della soluzione dei due Stati, sostenevano allora che il riconoscimento sarebbe arrivato in seguito alla conclusione - e non prima - dei negoziati tra le parti. La guerra a Gaza e il rifiuto ormai esplicito del governo di Israele di accettare uno Stato palestinese hanno superato la logica figlia del processo di Oslo, spiega su La Stampa Nathalie Tocci, direttrice dell’Istituto Affari Internazionali.
Poco. Ma le mosse dei governi occidentali, tradizionalmente vicini a Israele, riflettono l’orrore delle opinioni pubbliche internazionali per la catastrofe umanitaria causata dalla campagna israeliana di 23 mesi a Gaza, scrive l’Ispi, ricordando le accuse di genocidio mosse, da ultimo, anche da una commissione indipendente di esperti dell’Onu. In Italia, ad esempio, centinaia di migliaia di persone hanno manifestato in oltre 70 città per lo sciopero generale indetto dalle sigle sindacali di base, anche a sostegno della spedizione navale umanitaria della Global Sumud Flotilla.
Sul campo, le condizioni necessarie per la nascita di uno Stato palestinese, tuttavia, di fatto mancano (Nyt): in Cisgiordania i coloni espandono i loro insediamenti illegali, mentre l’offensiva su Gaza City ha costretto già oltre 300mila persone a fuggire dalla città sotto assedio. I diplomatici, tuttavia, continuano a ritenere che il riconoscimento della Palestina sia lo strumento migliore in questo momento per proteggere la soluzione dei due Stati.
Alcuni anlisti ritengono che ci troviamo davanti al momento Sudafrica di Israele. Cosa significa? Come spiega la Bbc, con tale espressione ci si riferisce al mix di pressioni politiche, boicottaggi economici, sportivi e culturali dal basso che contribuì a spingere Pretoria ad abbandonare l’apartheid.
Secondo +972 Magazine, lo slancio verso il riconoscimento di uno Stato palestinese crea l’illusione di un’azione concreta, ma finisce per ritardare i veri rimedi: sanzionare e isolare il regime di apartheid israeliano. Tuttavia, identificare il sistema israeliano come apartheid, anche solo da parte di un numero limitato di Stati, imporrebbe obblighi concreti e renderebbe legalmente e politicamente indifendibile il proseguimento del sostegno militare ed economico a Israele. Aprirebbe, in concreto, la strada a sanzioni, al ritiro delle rappresentanze diplomatiche e a un ripensamento delle relazioni economiche e commerciali con Israele.
Considerando che gli Stati non si sono dimostrati all’altezza delle proprie responsabilità, scrive ancora Tocci, tutto dipenderà dalla capacità della pressione pubblica e della società civile di trasformare la situazione che stiamo vivendo nel “momento sudafricano” di Israele.