Dimenticate i consigli di viaggio, le ricette culinarie o la promozione di profumi e cosmetici. Oggi, il ruolo degli influencer nella sfera pubblica è molto diverso. I creatori di contenuti sono diventati parte integrante dell’ecosistema politico: promuovono candidati, commentano l’attualità, orientano il dibattito online, sono coinvolti nelle campagne elettorali e, in alcuni casi, influenzano persino i risultati delle urne e le decisioni dei leader.
Una recente ricerca accademica sintetizzata da The Conversation spiega come gli influencer si muovano in una zona grigia non regolamentata con un’enorme capacità di amplificazione, spostandosi tra attività simili a quelle di celebrità, giornalisti, inserzionisti, attivisti o persino lobbisti. Di conseguenza, gli elettori si trovano di fronte a contenuti che sembrano spontanei ma che possono nascondere strategie di marketing politico o operazioni di disinformazione.
La loro forza sta nella relazione diretta e “autentica” con il pubblico, che spesso percepisce i creator come più affidabili dei media tradizionali. È qui che risiede il loro “soft power”: la capacità di influenzare atteggiamenti e scelte politiche senza apparire come attori istituzionali.
I partiti e i candidati hanno compreso che le nuove generazioni consumano informazione soprattutto su piattaforme online come TikTok e Instagram. Lì, i messaggi dei giornali e dei talk show arrivano raramente; al contrario, gli influencer riescono a intercettare gli interessi dei più giovani, parlando la loro lingua. Per questo motivo molte campagne elettorali stanno privilegiando la collaborazione con i “creator” rispetto alla copertura della stampa tradizionale (Wired).
Gli influencer offrono vantaggi che i media mainstream non possono garantire: immediatezza, creatività, capacità di “fare engagement” con formati brevi e virali. Un contenuto su TikTok può raggiungere centinaia di migliaia di persone in poche ore, spesso con un tono ironico o personale che lo rende ben più persuasivo di un comizio o di un articolo. Non si tratta solo di sponsorizzazioni pagate: in molti casi gli influencer scelgono di appoggiare candidati che sentono vicini ai propri valori, rendendo ancora più difficile tracciare il confine tra comunicazione politica e intrattenimento.
Questa tendenza apre nuove opportunità, ma anche nuove fragilità: mentre le leggi elettorali regolano le spese per la pubblicità, i contenuti degli influencer sfuggono a gran parte dei vincoli di trasparenza.
Tra i casi più emblematici c’è quello di Fidias Panayiotou, giovane youtuber cipriota noto per le sue “imprese” online, dai tentativi di abbracciare cento celebrità - tra cui il beniamino Elon Musk - a performance estreme come passare una settimana in una bara (Bbc). Nel 2024 ha deciso di candidarsi come indipendente alle elezioni europee.
Non aveva mai votato prima, non conosceva a fondo le istituzioni dell’Unione europea e non disponeva di una macchina organizzativa tradizionale. Eppure, grazie soprattutto al sostegno dei giovani, è riuscito a conquistare uno dei sei seggi riservati a Cipro al Parlamento europeo con una formazione di nuova creazione che ha ottenuto oltre il 19% delle preferenze.
La sua ascesa è stata interpretata come un segnale forte: i giovani, delusi dalla politica tradizionale, hanno scelto un volto familiare di YouTube per portare la loro voce a Bruxelles. Tuttavia, una volta eletto, Panayiotou è finito rapidamente al centro delle polemiche per le sue posizioni considerate ambigue se non proprio filorusse. Le sue dichiarazioni sulla guerra di aggressione della Russia in Ucraina, i viaggi a Mosca e l’atteggiamento indulgente verso la propaganda del Cremlino hanno alimentato critiche, mostrando come la popolarità digitale non sia garanzia di competenza o responsabilità politica (eKathimerini).
Gli influencer non si limitano a convincere gli elettori. In alcuni casi esercitano un’influenza diretta sui leader politici. Negli Stati Uniti, Donald Trump ha costruito un rapporto privilegiato con la galassia di “content creator” legati al movimento Maga - Make America Great Again. Tra questi spicca Laura Loomer, influencer di estrema destra diventata una sorta di consigliera informale per la sicurezza nazionale (Guardian).
Nonostante non ricopra alcun incarico ufficiale, Loomer ha avuto accesso diretto a Trump e lo ha spinto a licenziare diversi funzionari considerati non sufficientemente leali. È arrivata perfino a influenzare scelte delicate di politica estera, sostenendo pubblicamente l’attacco ai siti nucleari iraniani deciso dalla Casa Bianca.
Il caso Loomer mostra quanto la linea di confine tra politica istituzionale e pressione digitale possa diventare sottile. Quando un presidente ascolta più volentieri una influencer che i propri consiglieri, il rischio è quello di sostituire la competenza con la fedeltà ideologica, con conseguenze potenzialmente destabilizzanti.
Accanto alla politica interna, il “soft power” degli influencer viene sempre più spesso impiegato come strumento di propaganda internazionale. Israele, ad esempio, ha invitato decine di “creator” a visitare le aree di stoccaggio degli aiuti umanitari destinati alla Striscia di Gaza, diffondendo video che hanno come proposito quello di negare l’esistenza di una carestia che è stata certificata, invece, dalle Nazioni Unite (il manifesto). Immagini di sacchi di farina e scatoloni di viveri sono state rilanciate su Instagram e TikTok per spostare l’attenzione dalle denunce delle organizzazioni non governative e screditare i rapporti indipendenti (Le Monde).
La Cina ha scelto un approccio diverso ma non meno strategico: organizzare viaggi premio per giovani influencer americani, con tappe tra aziende high-tech, città moderne e attività culturali. L’obiettivo è promuovere una narrazione positiva del Paese, amplificata dai media statali cinesi che rilanciano i contenuti prodotti dai partecipanti (Formiche).
La Russia, infine, ha usato gli influencer come parte di una macchina di disinformazione più ampia. In Germania, una rete di siti falsi e account automatizzati ha diffuso notizie inventate, amplificate da “creator” e account coordinati (Politico). In Romania, invece, la diffusione virale di video su TikTok ha contribuito all’ascesa improvvisa di un candidato di estrema destra, Calin Georgescu, poi travolto da scandali e accusato di legami con Mosca, fino all’annullamento del primo turno delle presidenziali e all’esclusione della sua candidatura (Bbc).
In tutti questi casi, la forza degli influencer è stata sfruttata per costruire o rafforzare narrazioni favorevoli a governi e potenze straniere, aggirando i canali ufficiali e parlando direttamente alle emozioni del pubblico.
La centralità degli influencer nella politica contemporanea solleva interrogativi cruciali per la tenuta democratica. Da un lato, la loro capacità di mobilitare i giovani può rivitalizzare la partecipazione civica. Dall’altro, la mancanza di regole chiare e la facilità con cui possono essere cooptati li rende strumenti perfetti per campagne opache di propaganda e disinformazione, scrive ancora The Conversation.
La difficoltà di distinguere tra sostegno genuino e contenuti sponsorizzati mina la trasparenza del dibattito pubblico. La possibilità che un leader si lasci condizionare da voci digitali più che da esperti istituzionali mette a rischio la qualità delle decisioni. Infine, l’uso degli influencer da parte di governi e potenze straniere evidenzia quanto i sistemi democratici siano esposti a interferenze esterne. La posta in gioco non è solo la comunicazione politica, ma la stessa tenuta delle democrazie.