Dal 1° gennaio 2025 è in vigore il nuovo codice Ateco 96.99.92, che include tra le attività economiche ufficialmente censite anche “servizi di incontro ed eventi simili”, tra cui escort e prestazioni sessuali a pagamento. L’intento dichiarato è tecnico-statistico: aggiornare la classificazione nazionale alle nomenclature europee per garantire la comparabilità dei dati e migliorare la stima del sommerso. Tuttavia, l’impatto dell’inserimento è tutt’altro che neutro. (Agi).
Avere un codice Ateco dedicato consente, in teoria, di aprire partita Iva e pagare le tasse, ma non equivale a una legalizzazione piena. La normativa italiana continua a considerare illegale l’organizzazione dell’attività sessuale altrui: gestire un locale, procurare clienti o organizzare eventi di prostituzione è punibile penalmente. Inoltre, resta aperta la questione della qualificazione fiscale del reddito derivante da queste prestazioni: se si tratta di lavoro autonomo, andrebbero applicate Iva e Irpef, ma non è chiaro con quale aliquota (Il Sole 24 Ore).
Rimangono dubbi anche sulla reale disponibilità dei clienti a farsi rilasciare fattura, in un settore che rimane segnato da forte stigma sociale. In definitiva, il codice Ateco apre una possibilità sul piano fiscale, ma lascia insolute le contraddizioni normative e culturali che circondano il sex work in Italia.
A quasi settant’anni dalla legge Merlin, il nostro Paese si confronta ancora con un fenomeno esteso e che non è mai stato realmente regolamentato. Le stime più accreditate parlano di circa 60mila lavoratori e lavoratrici sessuali attivi stabilmente, a cui si aggiungono oltre 10mila operatori occasionali. Più della metà sono stranieri, e una quota non trascurabile è composta da minorenni. L’industria, formalmente non riconosciuta, genera un fatturato di circa 4,7 miliardi di euro l’anno, ma gran parte dei guadagni resta in mano ad attività criminali e intermediazione illegale (Domani).
Il sistema italiano consente l’attività individuale, ma vieta qualsiasi forma di intermediazione o organizzazione, spingendo il lavoro sessuale ai margini della legalità. Questo approccio ha alimentato la precarietà, esposto i lavoratori a violenze e impedito l’accesso a tutele sociali e sanitarie. Diverse associazioni chiedono un cambio di rotta: c’è chi propone la regolamentazione sulla scia di quanto avviene in alcuni Paesi europei, e chi invece insiste sulla penalizzazione dei clienti e su politiche di reinserimento per le vittime di tratta.
Nel mondo si stima che i sex worker siano circa 52 milioni, con una prevalenza femminile significativa e un’età media di ingresso estremamente bassa (Iusw). Dove non vige l’illegalità il settore è regolato in modi molto diversi, riassumibili in quattro approcci principali (The Week).
Il primo è la legalizzazione regolamentata, che consente l’attività sessuale a pagamento all’interno di un quadro normativo definito: i lavoratori devono registrarsi, sottoporsi a controlli sanitari, rispettare requisiti di esercizio e pagare le tasse.
Il secondo è l’abolizionismo, che non punisce l’attività in sé, ma vieta la gestione, il favoreggiamento e la sollecitazione in pubblico. L’obiettivo è scoraggiare l’organizzazione del sex work senza criminalizzare chi lo esercita individualmente.
Il modello neo-abolizionista mira invece a ridurre la domanda penalizzando chi acquista i servizi sessuali. I sex worker non sono sanzionati, ma la repressione si concentra su clienti e intermediari.
Infine, la decriminalizzazione totale prevede la rimozione di ogni sanzione penale sul lavoro sessuale consensuale tra adulti, senza introdurre obblighi di registrazione o regolamentazioni specifiche. È considerata da molte organizzazioni per i diritti umani come la strategia più efficace per ridurre lo sfruttamento e migliorare la sicurezza.
Negli ultimi anni, il Belgio ha intrapreso un percorso radicale: dopo la depenalizzazione del 2022, nel 2024 ha introdotto una legge che permette ai sex worker di firmare contratti di lavoro con accesso alle tutele tipiche di qualsiasi altra professione. Le nuove regole garantiscono sicurezza, maternità, congedi, pensione e soprattutto il diritto a rifiutare prestazioni o clienti. Una normativa che, secondo molti osservatori, rappresenta il modello più avanzato al mondo (Nyt).
Tuttavia, la sua applicazione è ancora limitata. I contratti approvati sono pochissimi, l’iter burocratico è complesso e molti lavoratori - soprattutto migranti senza documenti - restano esclusi. Inoltre, alcune realtà associative temono che la nuova legge possa rafforzare circuiti di intermediazione e normalizzare pratiche coercitive. Restano aperte anche questioni pratiche legate al riconoscimento dei datori di lavoro e al monitoraggio delle condizioni reali nei luoghi di esercizio (France24).
In Europa non esiste un approccio condiviso al sex work. Le legislazioni sono estremamente eterogenee e riflettono visioni ideologiche divergenti. La Francia ha adottato nel 2016 il modello neo-abolizionista svedese, penalizzando i clienti ma non le sex worker. Un approccio che anche la Corte europea dei Diritti dell’uomo ha avallato (Euronews) e che secondo i suoi sostenitori, intende scoraggiare la domanda e combattere lo sfruttamento. Tuttavia, molte associazioni denunciano un peggioramento delle condizioni di sicurezza e salute per chi lavora nel settore, costretto a operare in clandestinità.
Altri Paesi europei seguono strade diverse (L’Espresso): in Germania e nei Paesi Bassi il sex work è legale e regolamentato; in Croazia sono penalizzate le sex worker, ma non i clienti; in Lituania è vietato in ogni forma. Questa frammentazione normativa ostacola interventi coordinati su scala europea e contribuisce alla persistenza di zone grigie, sfruttamento e vulnerabilità.
La vicenda di Elena Maraga, maestra d’asilo in un primo momento sospesa e poi licenziata da una scuola cattolica nel Trevigiano per aver pubblicato contenuti su OnlyFans (Corriere), ha aperto un fronte ulteriore nel dibattito sul sex work, toccando anche la delicata la sfera etico/morale. Il caso ha spinto le istituzioni a riflettere sull’opportunità di un codice etico per il personale scolastico sui social (Wired), mentre una parte dell’opinione pubblica ha sollevato dubbi sulla legittimità di sanzionare comportamenti privati non vietati dalla legge. Al di là dell’esito, l’episodio ha evidenziato quanto ancora sia fragile la distinzione tra vita professionale e vita personale per chi lavora - o è percepito come lavoratore - nel campo della sessualità (Rivista Studio).
Il film vincitore di cinque Oscar, Anora, ha riacceso anche il confronto sul modo in cui il sex work viene rappresentato dal cinema. Ambientato nel mondo dei club per adulti, la pellicola racconta l’ascesa e la caduta di una giovane donna coinvolta in un matrimonio con il figlio di un oligarca. La regia si propone di superare lo stigma con una narrazione realistica e senza moralismi, ma le critiche non sono mancate (Variety).
Alcuni hanno contestato la superficialità con cui viene trattata la protagonista: una figura che, pur al centro della storia, è definita più da ciò che subisce che da ciò che sceglie. Le scene più violente vengono spesso inquadrate in chiave grottesca o ironica, contribuendo a una rappresentazione che finisce per riprodurre stereotipi anziché decostruirli. Se da un lato il film si inserisce in una tradizione di denuncia e visibilità, dall’altro fatica a restituire la complessità dei personaggi femminili. È un limite ricorrente in molte opere dedicate al sex work: la mancanza di sguardo interno e la tendenza a spettacolarizzare il margine sociale invece di restituirgli dignità narrativa (Vox).