


La COP30, aperta il 10 novembre a Belém, in Brasile, è il vertice annuale dell’Onu sul clima. Riunisce delegazioni da oltre 190 Paesi per negoziare nuovi impegni contro il riscaldamento globale. È un appuntamento cruciale: secondo l’Onu, senza un cambio di passo, le temperature potrebbero superare la soglia critica di +1,5°C, con impatti severi su ecosistemi, economie e sicurezza globale (Cnn).
Quest’anno la posta in gioco è particolarmente alta: la COP30 coincide con il nuovo ciclo quinquennale previsto dall’Accordo di Parigi, durante il quale i Paesi devono presentare piani aggiornati di riduzione delle emissioni fino al 2035. Ma oltre il 90% dei governi ha mancato la scadenza iniziale, arrivando al vertice tra pressioni, ritardi e piani incompleti (Euronews).
Le Conferenze delle Parti nascono nel 1992, al Summit della Terra di Rio, quando i Paesi firmarono la Convenzione Onu sui cambiamenti climatici. La prima COP si è svolta a Berlino nel 1995, mentre nel 2015, alla COP21 di Parigi, è stato raggiunto lo storico accordo per contenere il riscaldamento entro i +2°C, puntando a +1,5°C (Guardian).
Da allora le COP hanno il compito di tradurre questa promessa in politiche reali: definire piani nazionali, aggiornare gli impegni e negoziare temi complessi come finanza climatica, energia, adattamento e tutela delle foreste.
La COP30 arriva a dieci anni esatti dalla firma di Parigi, un anniversario che rende evidente quanto sia stretto il margine per correggere la rotta (Axios).
Diversi elementi hanno contribuito a rendere questa conferenza una delle più complesse degli ultimi anni. A partire dalla sede: Belém, “porta d’ingresso dell’Amazzonia”, è stata scelta per richiamare l’attenzione sulla crisi delle foreste. Ma la città conta circa 18 mila posti letto e ne attende oltre 50 mila, con costi schizzati alle stelle e delegazioni, soprattutto dal Sud globale, che denunciano l’impossibilità di partecipare ai negoziati dove si decide del loro futuro (Reuters).
Inoltre, il governo brasiliano di Lula si è impegnato contro la deforestazione, ma allo stesso tempo ha autorizzato esplorazioni petrolifere alla foce del Rio delle Amazzoni. Una contraddizione che ha scatenato proteste di Ong e comunità indigene (Dw).
Infine, gli Stati Uniti non partecipano con una delegazione di alto livello: un caso senza precedenti. Il presidente Trump ha interrotto numerose politiche ambientali del suo predecessore e ha ritirato il Paese dagli accordi di Parigi già il giorno del suo insediamento. Alla COP30 molti temono un ruolo ostruzionistico da parte di Washington; diversi osservatori hanno parlato di un “vuoto a forma di Trump” sul negoziato (Cnbc).
Uno degli elementi più discussi è l’assenza dei numeri uno dei tre maggiori inquinatori globali: Stati Uniti, Cina e India.
Gli Usa hanno disertato completamente la COP30. L’amministrazione Trump considera la decarbonizzazione come una minaccia alla sovranità nazionale. Le previsioni sulle emissioni USA al 2035, secondo Rhodium Group, sono state riviste al ribasso: dal -22/44% con le politiche Biden al -7/19% dopo soli nove mesi di nuovo corso politico (Cbs).
Pechino ha inviato solo il vicepremier. La Cina è oggi il primo emettitore mondiale — quasi 12 miliardi di tonnellate di CO₂ annue — ma anche il principale investitore globale in energie rinnovabili, con 625 miliardi di dollari stanziati nel 2024. Una potenza attraversata da contraddizioni: da un lato il carbone è ancora al 58% del mix; dall’altro la capacità di solare ed eolico è più che raddoppiata in due anni.
L’India ha mandato un ambasciatore, una presenza considerata formale. Terzo emettitore mondiale, dipende fortemente dal carbone e non ha ancora presentato il piano aggiornato per la riduzione delle emissioni al 2035.
L’assenza simultanea di questi tre attori indebolisce il negoziato globale e lascia l’Unione Europea come unico grande blocco ad arrivare con obiettivi elevati.
Il nodo più urgente è la finanza climatica, cioè come reperire i fondi per mitigazione e adattamento nei Paesi più vulnerabili.
L’Ue ha investito 42,7 miliardi di euro nel 2024, rimanendo il principale finanziatore, ma il “climate finance gap” è ancora enorme: servono almeno 500 miliardi di euro l’anno solo in Europa per restare in linea con gli obiettivi 2030. Al summit diversi Paesi spingono per introdurre carbon tax globali, dazi climatici e contributi obbligatori, ma molti governi in via di sviluppo chiedono condizioni più eque.
Il confronto è acceso: gli Stati più poveri accusano i Paesi ricchi di voler scaricare i costi della transizione; mentre i Paesi industrializzati difendono la linea secondo cui il finanziamento deve coinvolgere tutte le economie, inclusi i grandi emergenti (Reuters).
La grande novità è che Belém ospita la più ampia delegazione indigena di sempre: oltre 3.000 rappresentanti. Le priorità sono un maggior ruolo decisionale delle popolazioni native, la tutela della foresta amazzonica, un grande piano internazionale proposto dal Brasile per la difesa delle foreste globali (Euronews).
La questione più divisiva riguarda il futuro di petrolio, gas e carbone. L’Europa è l’unica a spingere per impegni vincolanti di riduzione. Brasile e altri Paesi suggeriscono di concentrarsi su obiettivi più “realistici”, come la lotta alla deforestazione. Gli Stati Uniti, assenti, restano l’elefante nella stanza. Cina e India insistono sul principio delle “responsabilità comuni ma differenziate”: gli sviluppati devono fare di più (Ispi).
Intanto, molti Paesi non hanno ancora presentato piani nazionali dettagliati. Gli analisti ONU stimano un taglio del 12% delle emissioni globali al 2035 rispetto al 2019, ben lontano dal -60% necessario. Questo in un contesto internazionale in cui il consenso internazionale intorno ai temi climatici si sta sgretolando e c’è un crescente scetticismo interno in Europa verso i costi della transizione, mentre crescono le rivalità energetiche e tecnologiche tra Cina e Stati Uniti. Il segretario dell’Onu per il clima Simon Stiell ha ammonito: “Il vostro lavoro non è combattervi, ma combattere la crisi climatica” (Guardian).
L’Unione Europea arriva da “ultimo baluardo”, come sottolineato da Rivista Studio. Sostiene l’obiettivo di +1,5°C e spinge per impegni credibili su fossili e finanza. Ma deve fronteggiare lo scetticismo interno: cresce l’idea che l’Europa sia diventata un “bancomat globale”.
La Cina, invece, ha una posizione controversa: è allo stesso tempo primo emettitore, primo investitore in rinnovabili e Paese con più contraddizioni interne. Pechino vuole rafforzare il proprio ruolo globale, ma ha difficoltà a uscire dalla dipendenza dal carbone (Ft).
L’India punta a mantenere flessibilità sul proprio percorso industriale. Non presenta piani aggiornati e difende la necessità di maggiori fondi dai Paesi ricchi.
Il Brasile, come Paese ospitante, propone un grande patto internazionale sulle foreste, vuole essere leader del Sud globale, ma deve giustificare le nuove esplorazioni petrolifere (Bloomberg).
Infine, ci sono gli Stati Uniti, assenti, con una leadership climatica indebolita dalle politiche dell’amministrazione Trump. Questo riduce la credibilità del negoziato e apre scenari più favorevoli per Cina e UE nel fissare gli standard globali (Nyt).
Un accordo minimo è lo scenario più probabile. Potrebbe includere un impegno generale “a ridurre gradualmente” i fossili, nuove risorse per adattamento e perdita e danno, un patto multilaterale per la protezione delle foreste; una road map per aggiornare i piani al 2035. Oppure ci potrebbe essere un accordo ambizioso ma solo sulla carta, possibile se l’Ue riuscisse a convincere Cina e grandi emergenti a sottoscrivere obiettivi più forti, ma senza dettagli esecutivi. Secondo Reuters, potrebbe anche non esserci nessun accordo finale: le tensioni geopolitiche sono tali da rendere incerto anche il raggiungimento di un documento condiviso.
La COP30 segna un momento decisivo nel percorso di attuazione dell’Accordo di Parigi. Con un mondo più caldo, più diviso e più vulnerabile rispetto al 2015, il vertice di Belém arriva in un clima di sfiducia ma anche di urgenza crescente. Se il multilateralismo saprà resistere, potrebbe essere il summit della svolta. In caso contrario, rischia di diventare la conferenza che ha mancato l’occasione di cambiare davvero il corso degli eventi (Cnn).

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