L’idea del safari nasce all’inizio del Novecento, nel pieno del colonialismo europeo in Africa. All’epoca non era un’esperienza fotografica, ma una battuta di caccia: trofei da esibire al ritorno in Europa più che animali da proteggere. Poi 100 anni fa, nel 1925 i belgi crearono il Virunga National Park nell’attuale Repubblica Democratica del Congo, primo parco nazionale africano pensato per regolamentare l’attività venatoria e, al tempo stesso, conservare l’habitat naturale (Africanews).
Da allora i safari si sono trasformati: oggi l’attrazione è l’incontro ravvicinato con la fauna selvatica, unito a lodge (strutture ricettive, piccola e immerse nella natura, che offrono comfort medio-alti o di lusso) e promesse di esperienze autentiche. Ma il retaggio coloniale rimane, sia nell’immaginario che nei rapporti economici. Inoltre, la loro crescita porta con sé rischi di elitizzazione: esperienze sempre più costose, accessibili a pochi, mentre le comunità locali restano ai margini.
Il turismo dei safari è oggi un pilastro dell’economia africana. Genera quasi 12 miliardi di euro di ricavi diretti e oltre 40 miliardi considerando l’indotto, dai trasporti all’ospitalità. In Paesi come Kenya e Tanzania contribuisce per circa il 10% del Pil nazionale.
Il settore impiega circa 25 milioni di persone, pari al 5,6% dei posti di lavoro complessivi nel continente. Dopo la pandemia, che aveva quasi azzerato gli arrivi internazionali, le prospettive sono di una crescita del 6,5% annuo: entro il 2030 i turisti potrebbero più che raddoppiare, da 62 milioni a 130 milioni (Il Post).
Tuttavia, la pandemia di Covid-19 ha mostrato tutta la fragilità del settore. Con il crollo del 93% degli arrivi turistici, molte aziende hanno chiuso e migliaia di lavoratori hanno perso il posto. Ogni impiego nei safari sostiene in media 8-10 persone in famiglia: il contraccolpo sociale è stato enorme. In assenza di alternative, in alcune aree il bracconaggio è aumentato fino al 200%, segno di come il turismo sia vitale per garantire mezzi di sussistenza legali (Berkley Economic Review).
Il profilo del visitatore si sta diversificando. Stati come la Tanzania puntano con decisione alla crescente classe media cinese, forte di 400 milioni di persone. Prima della pandemia, i cinesi rappresentavano già un quinto della spesa turistica globale, ma solo lo 0,6% dei viaggiatori aveva scelto l’Africa.
Con la riapertura delle frontiere, i governi africani hanno cercato di intercettare una quota maggiore di questo mercato, offrendo voli diretti, pagamenti digitali e servizi in lingua. L’espansione verso nuovi pubblici potrebbe bilanciare la dipendenza da Europa e Stati Uniti, ma richiede infrastrutture adeguate e politiche di promozione a lungo termine (South China Morning Post).
Dietro la facciata idilliaca di jeep e tramonti, l’economia dei safari resta fortemente sbilanciata. Gran parte delle concessioni per costruire lodge e campi safari richiede investimenti milionari, spesso accessibili solo a grandi gruppi stranieri. Questo significa che una quota rilevante dei profitti non resta nei Paesi africani, ma viene rimpatriata, scrive Il Post.
Secondo i dati della Berkley Economic Review, il modello della “fortress conservation”, nato in epoca coloniale, continua a pesare: aree protette create escludendo le comunità locali, costrette ad abbandonare terre e pratiche tradizionali. Ancora oggi molte popolazioni percepiscono i parchi come spazi imposti più che condivisi.
Nonostante il peso dell’industria, solo il 15% delle imprese safari associate all’Africa Travel and Tourism Association è di proprietà di africani neri. Le barriere sono storiche: accesso limitato alla terra, mancanza di capitale iniziale e discriminazioni sistemiche.
Negli ultimi anni, però, stanno emergendo esempi pionieristici. In Zimbabwe, Batoka Africa, fondata da Vimbai Masiyiwa e sua madre, è la prima compagnia di lodge posseduta da donne nere africane. Il loro modello lega lusso e comunità, con progetti di empowerment femminile e investimenti in scuole e sanità locali.
Ci sono poi le esperienze di African Bush Camps, avviata da Beks Ndlovu, e Volcanoes Safaris, che lavora tra Uganda e Ruanda formando personale locale e sostenendo i Batwa, popolazione indigena cacciata dalle foreste negli anni Novanta (National Geographic).
Infine, c’è il caso del Botswana, che ha passato una legge che prevede che almeno il 30% delle aziende legate ai safari sia di proprietà comunitaria. Un tentativo imperfetto ma che ha dato alcuni risultati concreti.
Il successo dei safari ha un costo ecologico. Episodi come quello del Serengeti, dove decine di fuoristrada hanno bloccato la Grande Migrazione degli gnu per consentire scatti ai turisti, mostrano i rischi dell’overtourism. La concentrazione di turisti in pochi parchi e in poche settimane dell’anno amplifica il problema (Forbes).
Al tempo stesso, molti operatori si presentano come “carbon neutral”: jeep elettriche, pannelli solari, crediti di compensazione. Ma non sempre le pratiche sono trasparenti e il rischio di greenwashing è concreto. La sostenibilità non può limitarsi al bilancio delle emissioni: deve includere comunità locali, biodiversità e gestione equa delle risorse.
Alcuni modelli più avanzati, come quello di Segera in Kenya, adottano criteri integrati (conservazione, comunità, cultura, commercio) e lavorano su reintroduzione di specie a rischio e progetti educativi (Bbc).
Come sottolinea la Berkley Economic Review, il safari è spesso l’unica fonte di reddito per le zone rurali. In assenza di altre opportunità, il turismo permette di finanziare scuole, cliniche e infrastrutture. Il futuro dei safari in Africa, quindi, dipenderà dalla capacità di garantire la redistribuzione dei benefici economici, attraverso quote di proprietà comunitaria e maggiore inclusione di imprenditori africani, e dalla capacità di preservare gli ecosistemi con pratiche turistiche responsabili.
Alcuni lodge hanno sviluppato progetti virtuosi: Batoka Africa sostiene cooperative femminili di artigianato e destina una quota di ogni pernottamento a fondi per sanità ed educazione (Afar).
Il National Geographic riporta il caso dell’African Bush Camps promuove alternative economiche per ridurre il disboscamento, mentre Volcanoes Safaris ha costruito un intero villaggio per i Batwa, fornendo case e servizi a una comunità altrimenti esclusa.